«Una regione senza metodo né cura della comunità. Il personale è devastato»

Questo è solo il titolo di un altro articolo uscito pochi giorni fa in cui il nostro amico Mirco Nacoti, ha rilasciato una breve intervista in cui racconta la crisi sanitaria in Lombardia. Di seguito potete leggere l’intera pubblicazione.

Mirco Nacoti, anestesista e rianimatore al papa Giovanni XXIII di Bergamo. Con un pugno di colleghi ha pubblicato sul sito del New England Journal of Medicine un documento drammatico che ha fatto il giro del mondo, portando alla ribalta la crisi sanitaria della Lombardia. Oggi dice: «L’ospedale ha centralizzato tutto. Il paziente arrivava con i parenti e così il contagio si propagava. Ai medici di base mancano mascherine e camici. Non è un’accusa, è la realtà»

Mirco Nacoti è anestesista e rianimatore all’ospedale Papa Giovanni XXIII di Bergamo, l’epicentro dell’epidemia in Italia e forse in Europa. Nel pieno della bufera, con un pugno di colleghi ha pubblicato sul sito del New England Journal of Medicine un documento drammatico che ha portando alla ribalta mondiale la crisi sanitaria della Lombardia. Diversi politici e dirigenti in regione non hanno gradito e invece di trarre una lezione dall’esperienza descritta hanno pensato piuttosto a difendersi. Si è persa un’occasione per correggere gli errori fatti? “Chi ha letto tutto l’articolo si è reso conto che non era una critica all’ospedale ma erano indicazioni per provare a evitare il disastro bergamasco”, racconta Nacoti. “Non a caso, quell’articolo era firmato anche da ricercatori della Pennsylvania, della Costa D’Avorio, persino da un operatore di Medici Senza Frontiere”.

Oggi le cose vanno meglio, come dicono i numeri della Protezione Civile?

Non c’è più la pressione di qualche settimana fa. Ma i numeri non raccontano la realtà. Nella migliore delle ipotesi, nel bergamasco ci sono 250 mila contagiati, cioè un quarto della popolazione. Nella peggiore sono 500 mila.

Avete imparato qualcosa sui trattamenti più efficaci contro il Covid?

Ciò che conta davvero è capire prima possibile quali pazienti si stanno aggravando per intervenire con la ventilazione prima che arrivino in ospedale. Clorochina e antivirali per il momento sono solo esperimenti, non fanno la differenza. Quando c’è confusione e non c’è un approccio standardizzato, è impossibile distinguere l’effetto del trattamento dall’evoluzione della malattia.

Avete scritto che dalla medicina basata sul paziente si dovrebbe passare a una medicina basata sulla comunità. Che significa?

In Lombardia e non solo, negli ultimi anni ci si è concentrati sulla cura della singola persona e si è trascurata la comunità, l’assistenza domiciliare che evita l’ospedalizzazione. L’epidemia non si combatte aumentando i posti di terapia intensiva. L’elemento centrale è il contenimento del contagio, altrimenti non bastano tutti i posti letto del mondo.

Per l’assistenza domiciliare servono servizi sul territorio. Ci sono?

L’ospedale ha centralizzato molto. Bisognerebbe fornire protezioni ai medici di base, invece mancano mascherine, camici, calzari. E si potrebbe potenziare la telemedicina. Un saturimetro collegato a una app e controllato a distanza non è una cosa complicata, esiste già e rappresenta un elemento diagnostico fondamentale.

La Società dei rianimatori ha proposto criteri per decidere chi curare e chi no, quando le risorse sanitarie non bastano per tutti. Avete dovuto applicarli?

In tanti modi diversi. Per chi ha dovuto applicarli da solo è stato devastante. Noi abbiamo cercato di farlo in modo collegiale, condividendo le decisioni con medici e infermieri. Ma il problema si è posto tantissime volte. Molta gente non è stata portata in ospedale perché non c’era posto. Non si è riusciti a tenere il passo del contagio con le terapie intensive, nonostante lo sforzo sovrumano. Per quello è importante conoscere le vere dimensioni del contagio. Ci si è concentrati sul 5% di contagiati che finiscono in terapia intensiva. Ma si è dimenticato che quando la base dei contagiati aumenta esponenzialmente anche il 5% diventa un numero insostenibile.

Ha lavorato in Costa D’Avorio con Msf durante la guerra civile. Le è stato utile in questa crisi?

Questa è una crisi umanitaria devastante. Nelle case c’è la disperazione. Le altre patologie sono state dimenticate, tra i morti registrati ci sono anche persone che non sono riuscite a curarsi. Le cure che potevamo mettere a disposizione un mese fa ora non sono più possibili. Il personale sanitario è logorato. In un paese povero paradossalmente questa precarietà è già conosciuta. Gli unici esperti di crisi umanitarie e epidemie da noi sono le ONG. Sono loro a sapere quali errori non fare e a lavorare in condizioni difficili.

Anche per la fase due potranno essere utili?

È importante che ci siano tavoli in cui lavorino insieme tutti gli attori: ospedali, amministrazioni, terzo settore, imprese. Per anni i paesi ricchi hanno sostenuto le ONG perché lavorassero in paesi a basse risorse, ora dobbiamo coinvolgerle qui. Solo immaginando che questa situazione andrà avanti per almeno sei mesi potremo mettere in campo azioni efficaci. L’epidemia non ti concede di vivere alla giornata e di imparare dagli errori. Ogni errore che fai lo paghi duramente, perché diventa nuovo contagio.

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